Margot legge... Gli affamati - Intervista a Mattia Insolia

I due fratelli Acquicella, Paolo e Antonio, con la rabbia ci fanno i conti sin dalla nascita.
Vivono a Camporotondo, un paesino del sud Italia. Il padre è morto, schiacciato da un televisore cadutogli addosso mentre era ubriaco, mentre la madre li ha abbandonati 5 anni prima della morte del padre, quando i due fratelli erano ancora dei bambini.
Adesso la loro vita è una routine di sporcizia e miseria, mentre Paolo lavora in un cantiere, Antonio frequenta ancora le superiori. Trascorrono le serate in casa, sul balcone che affaccia su quel giardino ormai diventato una discarica, o a ubriacarsi con gli amici. 

Tutto sembra il solito disagio esistenziale, ma la rabbia sta lì a lavorare, dentro gli occhi di Paolo, e si va gonfiando, picchia in testa come un martello.

Paolo e Antonio sono due ragazzi che, in fin dei conti, sono solo affamati di vita e di sogni.
Il filo conduttore è la sincerità con cui questi personaggi vengono raccontati e descritti anche nei pensieri più brutali. 

Mai banale e commovente. 

"Gli affamati", edito da Ponte alle Grazie, è il romanzo di Mattia Insolia, con cui ho avuto il piacere di fare una chiacchierata. Ed ecco il risultato.

Partiamo dal titolo, i due protagonisti Paolo e Antonio sono “Gli affamati”, ma esattamente affamati di cosa?


Il titolo ha dato un bel po’ di filo da torcere, perché in casa editrice ognuno aveva la propria idea. Arrivati alle battute finali la mia editor (Cristina Palomba) mi ha detto: “Serve un titolo.” 

E io, così, di getto: “Gli affamati.” 

Ed è piaciuto. Lei mi ha fatto la stessa domanda: “Perché affamati? Di cosa?”

È una fame generalizzata, hanno fame ma non sanno neanche loro bene di cosa. È quel desiderio di avere tutto, che corrisponde al nulla. 

La definirei fame di vita, in un certo senso. 


In questo romanzo sono tanti i temi principale, la fame appunto, il desiderio di affetto e la rabbia. Quale di questi temi domina su tutti gli altri?


Probabilmente la rabbia. È una sorta di concatenazione di cose. La rabbia da qualcosa deve derivare, come diceva Melville “Non esiste una qualità che valga in sé, se non per contrasto.”

Il collante di tutto è la rabbia, sicuramente, però la rabbia nasce dal desiderio, il desiderio di essere amati e riuscire ad amare. Loro non riescono a provare affetto perché non sono stati letteralmente educati a questo, non hanno avuto qualcuno che glielo insegnasse. L’unica cosa che cercano di fare è sopravvivere.

In questa sopravvivenza continua, in questo bisogno d’affetto che non riescono a elaborare, l’unica cosa che riescono a tirare fuori è la rabbia.


Quindi, secondo te, in questo romanzo la rabbia è un pregio o un difetto?


In questa particolare storia credo che sia un difetto. Unicamente perché loro stessi non riescono a gestire i sentimenti che provano. La rabbia, secondo me, è una spinta vitale, per certi versi. Nel momento in cui ti trovi sul fondo, ti può dare la spinta per risalire. E di quella risalita abbiamo sempre bisogno.


Inizialmente, tra i due fratelli il più rabbioso sembrava proprio Paolo. A p. 53 scrivi che Antonio: 

“Per la prima volta si accorgeva di un particolare: avevano gli stessi occhi. Colore, forma, espressione. Identici. Eppure c’era qualcosa di diverso. Qualcosa a cui non avrebbe saputo dare una definizione.” 

Questo fa pensare alla rabbia che Paolo si porta dentro ma nel salto temporale di 7 anni, nella lettera che Antonio scrive, sembra che i due personaggi abbiano più cose in comune di quanto sembra. Non è la rabbia a rendere diversi i loro occhi, ma qualcos’altro. Di che scintilla si tratta?


La rabbia ce l’hanno in comune. Se per Paolo è qualcosa che ogni giorno lascia andare, per Antonio è qualcosa da tenere dentro. Da una parte la rabbia è esplosiva e dall’altra parte è implosiva. 

Quella scintilla in Paolo è la mancanza di istinto di conservazione. Paolo teme il mondo, mentre Antonio teme di più se stesso. Nel momento in cui hai paura del mondo, lo attacchi in continuazione, altrimenti hai paura di esserne sopraffatto. Paolo brucia continuamente dentro. Ed è quella, la scintilla che vede Antonio.


I due protagonisti del libro non hanno delle sane relazioni amorose, questo perché non hanno mai conosciuto l’amore e quindi fanno fatica a riconoscerlo o perché l’amore è una debolezza che rifiutano?


Io sono convinto del fatto che a un certo punto l’amore devi riconoscerlo. È un istinto, una roba primordiale, noi tendiamo all’amore. Paolo, nel momento in cui riconosce di provare amore, di provare qualcosa di inedito, la identifica come debolezza e reagisce con la sola cosa che conosce. La rabbia. 


Probabilmente Antonio fatica di più a riconoscerlo, è un ragazzo che ha paura di se stesso e ha paura di mettersi nelle mani degli altri. Nel momento in cui riconosce che c’è un sentimento, però, ha meno paura. 


Riescono a vederlo, faticano a farlo, nel momento in cui lo fanno, riconoscono l’amore come una debolezza.


“Gli affamati” è il tuo romanzo d’esordio, ci sono stati altri libri o autori a cui hai fatto riferimento durante la scrittura del tuo romanzo?


Tanti. Tra tutti, Niccolò Ammaniti. Romanzi come “Io non ho paura”, “Come Dio comanda” o “Io e te”, hanno una trama intensa, filmica, e hanno anche un approfondimento psicologico che non si riesce spesso a trovare abbinato a una bella trama.

Ammaniti fa questa cosa che adoro: scende nell’animo umano, in profondità, gratta un po’ di sporco (quella roba che nessuno vuole vedere), la mette in luce per far vedere che in realtà anche quella roba lì ha una tenerezza, una sua bellezza. 


Poi, Marco Missiroli, Paolo Giordano, Sandro Veronesi, Domenico Starnone, Elena Ferrante, Wanda Marasco. Elizabeth Strout, Donna Tartt, Bret Easton Ellis.


Quale consiglio daresti a una persona che vorrebbe scrivere e pubblicare un libro?


Perseverare. Corsi di scrittura, fondamentali. Leggere tantissimo, ovviamente.




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