Margot legge... L'esercizio - Intervista a Claudia Petrucci

La malinconia di una coppia in trappola, la terrificante sopravvivenza in una vita fatta di cliché e passioni messe da parte, il controllo dell’identità. 
È la storia di Filippo e Giorgia, una coppia alla soglia dei trent’anni che si destreggia tra sogni andati a male e bollette da pagare. Un velo di rassegnazione oscura le loro giornate, quando nella vita di Giorgia ritorna un uomo del suo passato. Mauro, ex insegnante di teatro e regista, le chiede di riornare sul palcoscenico. Giorgia non sa se accettare, c’è qualcosa che la frena, ma Filippo cerca di incoraggiarla. Cosa ci sarebbe di male? 
Ma Filippo non sa che Giorgia soffre di una patologia mentale.
Il segreto che ha sempre cercato di nascondere finisce per dominarla, Giorgia si ritrova rinchiusa in se stessa. Ciò che Mauro propone per “sistemarla” è la lettura di un copione in cui si racconta chi era prima della crisi.

Ma chi siamo veramente?

L’esercizio”, La nave di Teseo, è il romanzo di Claudia Petrucci che, con voce matura ed equilibrata, descrive le debolezze e le velleità dei suoi personaggi, tra aspettative e verità. 
 


“L’esercizio” è la storia di Filippo e Giorgia, una coppia che alla soglia dei trent’anni si ritrova a convivere con qualche sogno andato a male. La scintilla esplode quando Giorgia incontra Mauro, il suo ex insegnante di teatro. Quella che racconti però non è la storia di un tradimento, è il racconto della schizofrenia di Giorgia, un personaggio che mentalmente diventa come una pagina bianca da riscrivere. Nel tuo romanzo è Filippo che parla al lettore e definisce Giorgia come “la storia che ho raccontato a me stesso”. È anche questo un esercizio, un modo di raccontarsi e raccontare questa storia?
  
Ho immaginato l’onniscienza del narratore come il difetto costitutivo del rapporto tra queste due persone: il fatto che entrambi, Giorgia per una ragione clinica e Filippo per una questione caratteriale, non riescano a evadere dalle reciproche visioni. Impongono all’altro, per ragioni diverse, una deformazione nello sguardo. La realtà è filtrata attraverso gli occhi di Filippo che racconta la sua compagna come se lui potesse effettivamente conoscere tutto ciò che le accade, come se potesse comprendere tutto ciò che lei prova, per Giorgia non c’è possibilità di scampo a questo sguardo onnipresente. È l’incarnazione della stortura che esiste in questa relazione, e in altre relazioni, e che mi interessava raccontare.
 
È il modo che sceglie Filippo di affrontare la malattia di Giorgia oppure è una conseguenza inevitabile?
 
Filippo non è capace di fare nient’altro. A volte abbiamo dei modi di essere che sviluppiamo nella nostra vita da adulti, che spesso sono connessi al modo in cui siamo cresciuti. Filippo viene da una famiglia che gli ha imposto un certo tipo d’identità che si sente costretto a seguire e questo lo porta ad applicare gli stessi criteri su Giorgia, criteri insani ma molto simili a quello che facciamo nelle nostre vite quotidiane. Tutti noi abbiamo una visione della realtà che non sempre corrisponde a ciò che ci circonda. Filippo arriva a deformare la realtà fino al punto in cui non riesce a concepire nient’altro che non sia qualcosa di totalmente identico alle sue proiezioni. Per questo Giorgia a un certo punto per lui non va più bene, smette di funzionare, smette di essere assimilabile alla sua concezione di ciò che dovrebbe essere il loro rapporto e di ciò che dovrebbe essere la loro vita. È lì che lui entra in crisi e a tutti i costi deve aggiustarla, deve sistemare il difetto.
A volte, i nostri difetti di fabbrica sono così invalidanti che non ci lasciano scampo, è anche il messaggio de “L’esercizio”. È un invito a riflettere sui meccanismi psicologici che noi attiviamo quando si tratta di interagire con gli altri, di amarli.
 
Il mio rapporto con la malattia mentale è sempre stato molto limitato, nel senso che non ho mai avuto esperienze dirette ma solo attraverso gli altri. Quello che molto spesso ho notato è una prima reazione di umano egoismo. Nei tuoi personaggi l’egoismo salta fuori un po’ dopo (quando Filippo decide di aggiustare Giorgia, appunto), ma lei? C’è un momento in cui Giorgia decide di essere egoista? 
 
Giorgia, di fatto, è completamente eclissata nelle varie identità che le vengono sovrapposte e imposte una dopo l’altra dai personaggi maschili. L’unico atto di sano egoismo che Giorgia compie è quando incontra Mauro e decide di tornare a recitare. La decisione che innesca tutto. Prende l'unica decisione che le è concessa, di tornare dove era stata meglio e peggio (dipende dai punti di vista), per scappare da una situazione che, in ogni caso, non la rende felice. Distrugge tutti gli equilibri.
 
Una cosa che non sono riuscita ad afferrare nel tuo romanzo è il sentimento che lega Filippo e Giorgia, il rapporto tra i due non è mai commovente fino ai brividi. È, sì, molto dolce, c’è la cura dietro i gesti di Filippo. Questa è stata una scelta che hai dovuto fare perché la storia che desideravi raccontare era ben lontana dall’amore viscerale o c’è anche in questo un messaggio?
 
Le premesse di questo rapporto sono evidenti: si sono scelti perché entrambi cercavano un posto in cui andare, ovvero una situazione stabile in cui collocarsi in un momento in cui tutto sembrava crollare. 
Loro si conoscono a una festa di laurea, Filippo sta per terminare l’università e davanti a sé non ha molte opzioni, soffre le pressioni familiari, in particolare materne, si ritrova proiettato in un futuro possibile. Giorgia, invece, si trova in un momento in cui è costretta ad abbandonare la recitazione perché ha delle conseguenze tragiche, incontrollabili, sul suo stato mentale. 
È anche vero che Filippo è il rappresentante perfetto di un problema generazionale, di chi non ha la fortuna di provenire da famiglie particolarmente benestanti e che per forza di cose hanno a che fare con la precarietà. 
Entrambi si incontrano e si attaccano nella speranza di resistere a ciò che sta fuori, trovare un angolo in cui rifugiarsi e stare in attesa che le cose migliorino. In realtà finiscono per intrappolarsi nel loro stesso nascondiglio.
 
Del tuo romanzo mi è piaciuto il modo in cui hai messo su carta non solo il carattere dei personaggi ma le impressioni che gli altri hanno di loro. Il modo che ha Giorgia di essere uno, nessuno e centomila, il fatto che Mauro sia un perfetto cliché e che Filippo sia un perdente agli occhi degli altri. Non mi è sembrato un caso il fatto che fosse una donna un po’ la bambola, il giocattolo tra le mani di due uomini. C’è della beffa anche in questo?
 
Sì, la beffa è la descrizione di questi individui che non riescono a sfuggire agli stereotipi in cui si sono rifugiati. Una storia di esseri umani che giocano a nascondino con le proprie identità cercando di farsi minor male possibile. Ma alla fine finiscono per ferirsi l’un l’altro. 
I personaggi maschili sono entrambi vittime dei loro cliché, Filippo nei panni del fidanzato premuroso e Mauro nei panni dell’artista intellettuale maledetto, l’unica a sfuggire da questo è Giorgia. Anche Amelia.
Questo è intenzionale nella misura in cui ciò che volevo raccontare erano i modi diversi che hanno, nella società di oggi, uomini e donne nel trovarsi costretti a dei ruoli che in realtà stanno scomodi a tutti. 
A me interessa che il lettore possa maturare autonomamente delle conclusioni rispetto a ciò che è il racconto, non mi interessa dare delle risposte.
 
L’esercizio di Filippo, dietro la guida di Mauro, porta alla semplificazione, alla frammentazione dell’Io attraverso la lettura di un copione che risveglia l’anima di Giorgia. In quale modo il carattere e le aspirazioni fanno parte della nostra natura e quando queste derivano da altri? 
 
Tutti siamo condizionati in varia misura dal nostro ambiente familiare, la prima struttura con cui ci relazioniamo. A condizionarci è anche l’idea dell’individuo performante, che funziona all’interno della società e che può essere aggiustato perché sia sempre perfetto, tema che parzialmente affronto nel romanzo. Si ipotizza di eliminare le sofferenze dell’individuo per riuscire a renderlo più funzionale, ciò che Filippo e Mauro cercano di fare con lei. 
Non ho una risposta a questa domanda, non lo sappiamo. Ci impieghiamo una vita intera, a volte nemmeno ci riusciamo, a capire cosa desideriamo dalle nostre esistenze. 
 
Nel romanzo scrivi: “Vorrei dirle che è perfetta, vorrei dirle che l’ho scritta adatta al mondo che ci ha sempre spaventato, perché non avesse paura, perché non dovesse soffrire – ma è già troppo tardi: nelle sue braccia divento un fantasma.” L’esercizio può diventare manipolazione?
 
Sì, assolutamente. Non c’è nessuna via di scampo per Filippo. Me lo figuro sempre come l’incarnazione di quel famoso detto: “La via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.” Parte sempre con le migliori intenzioni ma in realtà ciò che crea è un mostro. 
È anche la riflessione su cosa significa realmente amare qualcuno. L’amore, in tutte le sue forme, può essere soffocato dalle proiezioni dei nostri desideri, da come noi vorremmo che gli altri fossero. 
 
“L’esercizio” è il tuo romanzo d’esordio, volevo chiederti se hai qualche consiglio da dare a una persona che vorrebbe scrivere e pubblicare un libro?
 
Scrivere tanto, confrontarsi con chi scrive. Leggere tanti esordi, comprendere cosa succede nel panorama editoriale. Essere iperattivi, lo consiglio sempre. Insistere.

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